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Noi Evangelisti

Giugno 2010. Ciao, sono Nicola Evangelisti e tra poco avrò sedici anni. Non so se altri esseri umani hanno potuto vivere una felicità come la mia. Può essere, ma non penso. Qualche mese fa, durante la notte tra il 3 e il 4 gennaio, io e Alessandra Tarsi, non lo avremmo mai creduto possibile, abbiamo fatto l’amore. Era la prima volta per tutti e due ed è stato così bello che ci siamo messi insieme seduta stante con il proposito di non lasciarci mai più.

In questo ultimo anno e mezzo della mia vita sono accadute altre cose straordinarie. Se ci penso mi sembrano tutte legate tra di loro con un filo di titanio.

Ti scrivo perché mi piacerebbe raccontarti tutto. Potrei rendere questo progetto un po’ più semplice, ma credo non sia una buona cosa farlo, per cui, sì: tutto.

 

Io, mia madre Sonia e mio fratello Francesco viviamo a Nori Valsenia in via Corelli, 18. Il nostro appartamento, due camere e una cucina in un condominio di venti appartamenti, è vicino a una vasta area di piccole fabbriche, ma è anche vicino ai campi, alle colline della Valsenia e al Rìpano, un fiume costeggiato da un sentiero senza fine.

Frequento la seconda classe del liceo scientifico Berna e mi piace molto la matematica, anzi, frequentavo. L’anno scolastico è terminato: ora frequento l’estate. Perché mi piace la matematica? Perché mi rilassa. Perché mi rilassa? Perché non devo fare sforzi: è un mondo sicuro, con poche ombre.

Anche storia è una materia molto bella. Sai che mi capita di sognare alcuni personaggi? Strano, eh? A volte non aprono bocca, mi guardano e basta, a volte dicono delle cose.

Una notte, per esempio, mi trovavo nel cortile di casa, sudato e in pieno sole, quando ho sentito un profumo intenso di violetta e ho cominciato a guardarmi intorno preoccupato: non vedevo nessuno, poi uno spintone improvviso sulla schiena mi ha fatto cadere a terra. Ho alzato gli occhi e davanti a me c’era Anastasija Nikolaevna Romanova, figlia dello Zar di Russia Nicola II, che si spanciava dalle risate.

“Coglione”, mi ha detto senza smettere di ridere.

“Io non c’entro nulla”, le ho risposto.

“Tu c’entri sempre, mon petit amour”.

“Che ci fai qui Anastasija?”

“Ti cercavo, amorino mio”.

“E perché?”

“Perché voglio vederti danzare nudo di fronte a me”.

“E perché?”

“Scherzo, suvvia! Sto cercando quel cacasotto del mio cane Joy: lo hai visto, per caso?”

“No”.

“Peccato. Lo volevo fotografare prima della sua morte”.

“E adesso?”

“E adesso niente, tanto io non ho mica paura: proprio come te, Nicola”.

Studiare italiano mi rilassa un po’ meno, nonostante ciò, mi piace scrivere. Scrivo racconti di fantascienza perché sono gli unici che riesco a concludere; ho provato anche altri generi ma non arrivo da nessuna parte: occorre molto desiderio per costruire storie, comprese le più assurde. Intendo dire: bisogna desiderarle.

E mi piace tantissimo leggere: non saprei immaginare la mia vita senza i libri. Mi hanno tenuto e mi tengono compagnia; mi sento in debito con quelli che li hanno scritti. Tuttavia, la professoressa di italiano e latino Maltoni Gherardi una volta ha citato la frase di un filosofo che ha fatto traballare la mia passione per la lettura, questa:

 

Non si può avere il coraggio di pensare se si sono letti troppi libri.

 

Le ho detto:

“Professoressa, mica tira acqua al suo mulino se fa così”. E lei ha riso. Però la frase mi sembrava suonare terribilmente vera.

Francesco. Adoro mio fratello Francesco: dovrà fare la seconda media e va bene a scuola. Ci assomigliamo, ma siamo anche diversi; lui è un casinista e si diverte molto a scherzare o a giocare nei momenti meno opportuni. Inoltre, Francesco ha dentro di sé la sua compagna speciale che, per fortuna, ora ha anche un nome e se ne sta più tranquilla di quando il nome non ce l’aveva; ma soprattutto, siamo più tranquilli noi tutti.

“Evangelisti, saresti perfetto”, pare gli dica con un certo fare giocoso uno dei suoi professori. E questo mi fa venire in mente di nuovo la Maltoni Gherardi che invece a me dice, sin dalla prima liceo:

“Evangelisti, sei proprio un genietto perfetto. Che ci stai a fare qui? Vattene a Parigi”. Insomma, io sono perfetto e mio fratello, se non rompesse il cazzo, anche. Che buffi che sono gli insegnanti, a volte.

Hai visto cosa ho scritto? Ho scritto cazzo. È una parola che, in genere, non uso, se non molto raramente. Me lo ha chiesto mio fratello Piero, di usarla:

“Nicola, tu dici poche parolacce e sei troppo educato. Non so se lo ricordi, ma hai quindici anni. Sai che questo non va bene? Sai che quelli che non dicono parolacce sono parenti stretti di satana? E allora! Forza, dinne una. Cazzo”.

Scherzava, ma io l’ho preso sul serio e ho scoperto che dire parolacce, in fondo, è una cosa piuttosto interessante, ha un suo valore. Ma soprattutto mi fa sentire vicino a Francesco che, in quanto a espressioni scurrili, svetta, da sempre, sopra tutti, nonostante le abbia ridotte di molto rispetto alla disastrosa impennata del mese di marzo dell’anno scorso.

Povero fratello, non era, e tutt’ora non è, una sua volontà turbare così profondamente le persone sensibili.

Partirò da marzo 2009, quindi; Francesco frequentava gli ultimi mesi della scuola elementare, io gli ultimi della prima liceo. Cercherò di scrivere tutto quello che mi sembra importante, o interessante, o divertente, voglio farti vivere questa parte della mia vita come l’ho vissuta io. Dico meglio: voglio riviverla avendoti vicino. Se mi perderò nei dettagli (colpa della mia buona memoria), nelle sciocchezze e nei discorsi diretti (che mi diverto molto a ricostruire e a rileggere), tu corri pure. Ok? Ma prima devo concludere le presentazioni di noi Evangelisti.

La mamma è arrivata all’incredibile età di quarantatré anni ed è leggermente sovrappeso.

“Leggermente ‘sta pippa”, dice lei.

Fa l’assistente parrucchiera da una parrucchiera che, per nostra fortuna, si trova a pochi passi da casa.

“Faccio l’assistente parrucchiera perché non ho ancora molta esperienza”.

“Ma mamma, lavori lì da quattro anni”.

“Che c’entra?”

Cosa posso dire di Sonia? A me piace. Come Francesco, è spesso allegra. È buona e molto affettuosa. Mi chiama il mio maschiaccio. Come Francesco, può combinare qualche guaio: lo può fare mentre cucina, lo può fare con i pagamenti, lo può fare in qualche altra occasione, però mai cose gravi.

È vero, Sonia è una donna allegra, tuttavia alcune rare volte (sì, rare è il termine giusto) diventa d’un tratto triste e non si riesce a capire la ragione. Quando succede conviene coccolarla perché le coccole la fanno stare meglio e occorre occuparsi delle faccende di casa. Poi passa tutto e si riparte tranquilli.

Sonia non guadagna tanti soldi. Che i soldi siano un problema, e per noi lo sono, lo dicono tutti, anche le persone ricche, tipo la signora Maria Stella Balestra che con il marito vive nella villetta a fianco del nostro condominio; i Balestra hanno tre auto (?), hanno la ragazza delle pulizie, hanno il giardiniere.

“Eh, Sonia cara, figlia mia, i soldi sono proprio un problema”. Una volta le ho risposto:

“Signora Balestra, mi dispiace tanto che lei abbia il problema dei soldi. Si faccia coraggio, vedrà che ce la farà”. E mia madre poco dopo mi ha sussurrato all’orecchio:

“Guarda Nicola che quella lì è piena di soldi”.

“Sì, sì, mamma, lo so”.

Sonia fuma, non c’è niente da fare. Non smette. Lo fa da quando ha undici anni: in camera mia e di mio fratello non si fuma. Divieto assoluto. Se Sonia entra da noi con la sigaretta accesa tra le dita, cosa che può fare soprappensiero, si becca all’istante una sgridata e fugge subito chiedendo scusa.

Per finire, il mio fratellone Piero, che vive e lavora a Chiesa e ha quasi ventitré anni.

Quando ci siamo trasferiti a Nori Valsenia, circa quattro anni fa, Piero non è venuto con noi, ha detto:

“Io non vengo”.

“E dove vai?”, ha chiesto nostra madre.

“Sono affari miei”, ha risposto, ed è sparito.

Piero non aveva mai rivolto la parola né a me né a Francesco, noi per lui non esistevamo. Se lo incontravamo per strada non ci salutava.

Una volta Francesco, che non era neppure in prima elementare, è stato travolto da una bicicletta. La ragazza della bici si era ritrovata con un braccio rotto, si vedeva chiaramente ed era impressionante, mentre mio fratello, lo avremmo saputo più tardi, si era incrinato due costole.

Francesco ha cominciato a urlare e a piangere come mai aveva fatto prima. Io e mamma abbiamo cercato di tranquillizzarlo, un signore ha chiamato l’ambulanza. C’era sempre più gente attorno a noi. A un certo punto, ho visto mio fratello Piero: è comparso da dietro un gruppo di signore, ha osservato la scena dell’incidente e ha puntato gli occhi su Francesco per qualche secondo, poi se n’è andato.

Vivevamo a Nori Valsenia da mesi, quando è arrivata la notizia che Piero, del quale non avevamo saputo più nulla, era finito in carcere. È rimasto dentro oltre un anno. Mamma lo andava a trovare ogni tanto in treno. Io e Francesco ci siamo andati una volta, all’inizio, poi basta, tanto lui continuava a non guardarci e a non parlarci.

Qualche mese dopo essere uscito dal carcere, Piero si è presentato a casa nostra. Sapevo che era stato liberato perché me lo aveva detto Sonia, ma, ancora una volta, non si era mai fatto vivo, sino a quel 7 marzo.

“Quando se la sentirà verrà”, diceva Sonia.

L’ho trovato appoggiato con una spalla alla recinzione del condominio. Faceva un bel freddo. Appena l’ho visto mi sono immobilizzato. Sembrava un po’ diverso, ma una faccia è una faccia: non cambia. Cosa dovevo fare? Cosa si fa in un caso simile, con uno, un fratello, che non ti ha mai salutato e non ti ha mai parlato? Poi mi ha visto e, novità, ha continuato a guardarmi. A quel punto mi sono avvicinato con una lentezza ridicola e mi sono fermato a pochi metri da lui.

Piero ha camminato verso di me e quando si è trovato alla distanza giusta mi ha dato una pacca sulla spalla molto fastidiosa. Prima volta che mi toccava. Io però, ancora, non sapevo veramente cosa fare, non sapevo cosa dire.

Poi sono arrivate delle emozioni, le ho riconosciute, ed erano tutte negative: rabbia, rancore, paura, odio...sì, odio.

“Stai andando in casa?”, mi ha chiesto.

“Sì”.

“Posso salire?”

“Sì”.

“Va tutto bene?”

“Sì”.

Una volta in casa mi ha detto:

“Volevo vedervi”. Io non ho mosso un muscolo e, senza troppi calcoli, gli ho dato il mio personale stop:

“Ben tornato. Cosa possiamo fare per te?”

“Vorrei salutare anche la mamma e Francesco. Posso?”

Sentire pronunciare il nome Francesco da quello lì mi ha fatto salire la rabbia alle stelle, mi rendevo conto di essere arrossito.

“Siediti pure qui in cucina e aspettali, io devo andare in camera mia”.

Francesco è arrivato poco dopo. Quando l’ho sentito entrare ho pensato fosse meglio soccorrerlo e sono uscito dalla camera: il poverino stava reagendo come me, era immobile e smarrito, poi è riuscito a rispondere al primo saluto terreno di suo fratello Piero con un ciao sussurrato.

“Vieni in camera con me o stai qui? Lui aspetta mamma”.

“No, no, vengo in camera”.

Ci siamo messi a leggere senza scambiare una parola, solo qualche sguardo. E finalmente, dopo trenta ore, è arrivata mamma.

 “Oddio. Piero! Piero. Amore. O che cosa, che... Ragazzi dove siete? Avete visto?”

Io e Francesco ci siamo guardati con un’aria stanca e pensierosa.

Mamma ha preparato spaghetti all’olio per tutti e abbiamo cenato.

Durante la cena mia madre ha tentato qualche volta di farmi parlare, ma io non ho mai fiatato. Mio fratello maggiore invece non mi ha più rivolto la parola (e lo stesso ha fatto con Francesco).

Sonia, naturalmente, ha fumato di continuo, ma quando ha offerto una sigaretta a Piero, lui l’ha rifiutata perché in carcere aveva smesso di fumare.

Tra le cose che si sono detti quei due in quella splendida serata di marzo, ce n’erano un paio interessanti: a quanto pare Piero aveva già un lavoro, non ha detto quale, e una casa a Chiesa, nonostante fosse uscito dal carcere pochi mesi prima.

Questo significava che si sarebbe tolto dai piedi a fine cena, e in effetti è quello che è successo: nell’istante in cui tutti i piatti si sono svuotati, cioè dieci minuti dopo che ci eravamo seduti a tavola, Piero si è alzato, si è scusato per il disturbo, ha detto che doveva rientrare, ha ringraziato e se ne è andato.

«Molto bene», ho pensato con sollievo.

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