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Storia di un’anima

Nasce un bambino con strani occhi grigi che a causa di un atteggiamento particolarmente tranquillo viene considerato affetto da un problema mentale non definito. I deficit cognitivi però sono sfumati e nella prima adolescenza appaiono invece i tratti di un'intelligenza sbalorditiva. 

UNO

Il 7 febbraio 2026 verso le cinque della sera nacque a Cesena, in una casa di campagna, Giordano. Il nome era stato deciso nel 2025, il giorno della notizia: maschio. Il neonato si inserì nella giostra terrestre, senza preamboli e a proiettile, almeno due settimane prima della data presunta del parto; trascorsero solo alcuni minuti tra l’inizio delle contrazioni e l’uscita istantanea dall’utero. Giordano sarebbe dovuto entrare in ospedale poco prima della nascita galleggiando nel suo sacco; invece, ci entrò in ambulanza poco dopo e con una cuffietta bianca in testa.

Quelli del 118 arrivarono in tre: un medico, un’infermiera e un autista, vestiti tutti uguali. Il medico aveva l’aria di un fanciullo, era pallido con gli occhi tendenti allo sgranato, guardava a metronomo il bambino appena nato e l’infermiera; fu l’infermiera a occuparsi della madre e del piccolo, mentre ripeteva ogni trenta secondi: “Tutto bene, tutto molto bene”.

La partenza e il percorso verso l’ospedale ebbero una natura morbida a quanto pare. L’infermiera alzò la voce e disse all’autista: “Puoi andare Federico. Vai pure morbido”.

“Ok Ari, parto”.

 “Tutto bene, tutto molto bene”.

Il cordone ombelicale si sarebbe potuto tagliare, senza fretta, in reparto.

“Proprio così, non preoccupatevi, il cordone ombelicale può starsene dov’è fino a quando vogliamo”.

Il padre di Giordano seguì la luce lampeggiante con la propria auto, una Lada Niva del 2023; il poverino, isolato nell’abitacolo, si ritrovò orfano del potente mantra. Il tutto bene, tutto molto bene sembrava una cosa da niente, un intercalare, ma, soprattutto se pronunciato da una infermierona di un metro e ottantacinque, sorridente, profumo di lavanda distante e con i seni dominanti, poteva essere una vera benedizione. Infatti, per i genitori Agnese e Ivano, per Giordano e per il medico lo fu. Si rilassarono, nel possibile, tutti e quattro. Agnese poté dire: “Il mio bambino”; Giordano poté dire: “Ora smetto di piangere”; il medico poté dirsi: “Che dio mi assista sino alla fine”. Ivano, che era in macchina da solo, disse anche lui delle cose; tra le varie: “Merda, inizia a nevicare”.

Il dottor Lucio Alberti si congedò dall’ostetrica che aveva appena preso in consegna la diade e salutò Agnese: “Molto brava signora Agnese, complimenti”.

A fine turno Lucio era ancora nel pieno dell’eccitazione che gli aveva procurato il suo primo parto. Poco contò che il fulmineo evento (più comunemente detto lieto) fosse avvenuto da sé e poco contò che la gestione tecnica dell’emergenza fu quasi interamente sostenuta da Arianna, l’infermiera cestista, lavanda, garofano e cannella.

Arianna, segno zodiacale Acquario, quarantadue anni, visse la sua prima Africa dodici anni prima. Per lei fu la Repubblica di Guinea la terra del parto d’esordio. Non era un’ostetrica e aveva altro di cui occuparsi, ma un’amica, Eugénie, le disse: “Vuoi provare a fare un parto?”.

“Quando?”

“Anche domani se ci sei”.

“Va bene”.

Arianna si mise in posizione, protesse il perineo della partoriente, si godette con emozione il farsi largo della testolina e ripassò nella mente tutte le manovre che avrebbe dovuto eseguire: quale la tecnica per afferrare e governare la testa una volta uscita. Anche in quell’occasione, però, il bambino, che bambino non era, fu sparato all’esterno in una frazione di secondo. Arianna accolse la neonata 'come un portiere di calcio', stoppandone la traiettoria sullo stomaco e tra le mani, con retropulsione sincrona del bacino.

“Non ci posso credere”, commentò divertito Lucio, libero dalla divisa di lavoro e con l’aperitivo del giorno in mano.

“Ma questo, caro Lucio, era il tredicesimo parto per quella donna, non il primo, e ci stava”.

“Poi che hai fatto? Hai rinviato il pallone verso la metà campo?”

“Abbiamo infiocchettato a regola d’arte la marmocchia e l’ho offerta alle braccia della madre come si fa da noi, ma la donna, senza movimenti di sorta, mi ha guardato con un’espressione inequivocabile, quella che dice: ma che vuoi da me?”.

“Effetto tredici?”

“Penso di sì: probabilmente al tredicesimo figlio farebbe la stessa cosa anche una cesenate”.

“A quel punto l’hai messa nel cesto dei palloni?”

“A quel punto l’ho passata a Eugénie…”

“Ma Eugénie era in fuori gioco!”

“Smettila. L’ho passata a Eugénie anche se per un attimo ho pensato di tenerla. La posso tenere, signora? Sono certa che me l’avrebbe data e, finalmente, avrebbe pure sorriso. Ti conviene partire, Lucio, continua a nevicare”.

“Nevicare? È un bluff: la neve qui non esiste più”.

“Strani veramente gli occhi di quel piccolino, vero Lucio?, ogni tanto mi vengono in mente”.

“Arianna?”

“Eh?”

“Tu al mattino che tipo di colazione fai, a casa?”

“Dunque, io faccio due tipi di colazione. No. Tre.”

“Veramente?”

Anche secondo i medici dell’ospedale un parto così veloce non era da primipara; ad ogni modo tutto era andato bene, le condizioni del neonato e della mamma erano buone, quelle del papà discrete.

“Io vorrei passare la notte qui, se si può, per dare da bere ad Agnese, che in effetti può anche bere da sola, ma per comodità, dico, che poi se il bimbo, per dire, no, sì, questo è un ospedale, certo, ma…, se si può, dico”.

“Papà, adesso vada a casa sereno e si faccia una bella notte di sonno profondo. Pensiamo noi a tutto. Domani sua moglie e suo figlio avranno bisogno di lei. Ok? Bravissimo”.

La consulenza venne chiesta il giorno dopo. Era senza meno curioso che si ricorresse a una consulenza specialistica per il colore dell’iride di un neonato, tra l’altro tutto sommato normale, ma i medici preferirono procedere con un simile grado di prudenza. “Non si sa mai”, disse il direttore.

“Ma, in fondo, cos’hanno poi di tanto strano questi occhietti?”, fu il commento della coordinatrice infermieristica, che proseguì: “Posso dirlo? Niente”. 

L’oculista riconobbe che l’iride era singolare: non si trattava tanto del colore in sé, sebbene raro, quanto della sua apparente e strana uniformità.

L’iride è un dipinto composto da segni e colori sotto mare, un’opera d’arte sempre unica. Talvolta un occhio molto scuro cela la propria trama iridea che però c’è.  

Gli occhi di Giordano non si potevano considerare scuri e nemmeno chiari, la tonalità del grigio era intermedia, un grigio puro, perentorio; ma proprio perché intermedio e non scuro avrebbe dovuto offrire al mondo dei normo vedenti la sua trasparenza e i suoi tratteggi profondi. Invece no. A mezzo metro di distanza, la misura del più comune faccia a faccia umano, il grigio sembrava uniforme, compatto, duro, superficiale e tuttavia non mancava di brillantezza, non era opaco.

Come per gli occhi più scuri, la vicinanza ridotta a pochi centimetri o, meglio ancora, una lente d’ingrandimento, dissolveva con facilità quel grigio smaltato e apriva a un mondo corallino, subacqueo, ordinario.

Nella norma.

“Visto? Lo avevo detto”, se ne uscì la coordinatrice lanciando su una scrivania il referto. E non le bastò: “A me pare che siate caduti tutti in una suggestione di gruppo. Vi siete inventati il problema del grigio misterioso e invece è solo un grigio bellissimo.”

Quando Agnese venne dimessa dall’ospedale, la neve caduta aveva raggiunto mezzo metro di altezza e muoversi in auto richiedeva prudenza. Ivano ebbe l’impressione di appoggiare sul sedile posteriore un cesto della spesa; Giordano dormiva immobile: forse per quello. D’altra parte, l’impressione fu identica anche quando il cesto, l’ovetto, venne appoggiato sul tavolo della cucina. I genitori guardarono, tête à tête, la nuova presenza, incantevole e inquietante a un tempo: gli occhi erano aperti.

“Ciao Amore”.

“E adesso?”, domandò Ivano.

“Adesso niente, abbiamo un bambino”, rispose Agnese. E il bambino, sempre immobile, silenzioso, piccolissimo, seppure con taglio di sguardo laterale da neonato, pareva veramente osservare i genitori.

“Non piange”, disse la madre.

“Par furtona”, disse il padre.

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