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Gael

Questa è la storia di un giovane che, disarcionato dal suo cavallo, finì a terra picchiando la testa sulla dura superficie della terra.

Tutto cominciò così, quindi: una caduta da cavallo.

 

Il giovane rimase disteso a terra, come morto, ma, per fortuna, poco dopo si mosse e si mise lentamente a sedere sul ciglio del sentiero: così rimase, seduto, a lungo, sino a quando una fanciulla, dopo averlo osservato per un po' da lontano, si avvicinò.

“Buongiorno”, disse la fanciulla sorridendo.

“Buongiorno”, rispose il giovane sorridendo.

“Come vi chiamate, gentile signore?”

“Non ne ho idea, gentile signora”.

“E perché non ne avete idea?”

“A dire il vero, signora, non ho neppure idea del perché non ne abbia idea”.

“Avete perso la memoria?”

“Non so”.

“Se mi posso permettere, gentile signore, a ben guardarvi, osservando la linea dei vostri occhi e il vostro naso, io penso che un nome giusto per voi potrebbe essere...Gael. Sì, penso che voi possiate chiamarvi proprio così. Che dite?”

“Molto bene. Credo che abbiate ragione. Mi chiamo Gael”.

“Questo cavallo è vostro?”

“Non ne ho idea, signora”.

“Io penso proprio di sì: vi sta vicino, vedete? E vi guarda con amore”.

“Allora è il mio cavallo”.

“Immagino non sappiate come si chiama?”

“In effetti non lo so. Come pensate che si chiami, signora, il mio cavallo?”

“Un cavallo perfettamente marrone, con quella faccia lì...potrebbe chiamarsi...Dino”.

“Molto bene, allora io mi chiamo Gael e ho un cavallo perfettamente marrone che si chiama Dino”.

“A proposito, gentile signore, vi informo che voi siete un principe”.

“Un principe? E perché?”

“Ebbene, perché siete vestito come un principe, guardatevi!”

“Molto bene. Allora io mi chiamo Gael, sono un principe e ho un cavallo perfettamente marrone di nome Dino. Molto bene”.

“Dove siete diretto, principe? Oh, ma che sciocca: non ne avete idea, vero?”

“Non ne ho idea. Voi cosa pensate?”

“Penso che possiate essere diretto a Cornello, da quella parte, il paese dove, nella più bella fortezza del continente, vive la più bella principessa di tutti i tempi”.

“A sì? Molto bene. E che ci vado a fare, se potete dirmelo?”

“La principessa regnante sta cercando da tempo uno sposo, bello almeno quanto lei, e voi potreste essere il principe giusto, perlomeno a parere mio. Mi sa che andavate proprio là, sapete. Su, forza, salite sul vostro cavallo e partite”.

“Molto bene”, disse il principe.

Il principe Gael saltò sul cavallo Dino e Dino gridò di felicità.

Gael e la fanciulla si guardarono qualche istante in silenzio.

Gael sorrideva un po’ perso e solo quando la ragazza disse: “Buona fortuna, Principe!” il principe diede un deciso colpo di gamba a Dino e partì per Cornello.

Dopo due giorni e due notti il principe Gael arrivò a Cornello. La fortezza era veramente maestosa: un incanto di immensità.

Di fronte al grande portone di ingresso sei guardie passeggiavano lentamente, avanti e indietro.

Il principe si rivolse a loro e domandò: “È permesso?”.

Le guardie lo guardarono a bocca aperta: nessuno si era mai presentato in fortezza dicendo ‘è permesso?’.

“Chi siete?” chiese una guardia.

“Sono un principe, non vedete come sono vestito?”

“Principe di che?”

“Come sarebbe a dire principe di che! Ditelo voi, signori, di cosa sono principe, dovreste saperlo”.

Le guardie assunsero un’aria preoccupata. Quel giovane era di certo vestito come un principe e poteva essere rischioso per loro, putacaso fosse stato un principe importante, non riconoscerlo, non omaggiarlo come di convenienza.

Una guardia azzardò a caso: “Siete per caso il principe di Moncrotone?”

Il principe Gael scese da cavallo, si inchinò alle guardie e disse:

“Cari signori, ma certo: sono proprio il principe di Moncrotone. Molto bene”.

“E cosa desiderate principe di Moncrotone?”

“A ecco, dunque, vorrei vedere la principessa, cortesemente”.

“Quale principessa?”

“Come quale principessa, perché quante ne avete?”

“Dodici, principe. Le figlie del re sono dodici”.

“Pappardellona! Dodici principesse! Complimenti. Comunque, sarebbe mio interesse parlare con la più bella principessa di tutti i tempi. Come si chiama, già?”

“Pamelinda, principessa Pamelinda”, risposero le guardie.

“Pamelinda. Molto bene”.

Una guardia, allora, corse dentro al castello e si precipitò nelle stanze della principessa Pamelinda:

“Principessa, principessa!”

“Hei, che avete guardia? Vi sta inseguendo un orso bianco, per caso?” disse la principessa divertita.

“Principessa, il principe di Moncrotone vorrebbe vedervi”.

La principessa fece faccia da porcellina e disse stizzita:

“Il principe di Moncrotone? Non se ne parla neppure. Cosa crede questo che la principessa Pamelinda riceva seduta stante il primo che si presenta? Ditegli di tornare tra tre mesi e, forse, tra tre mesi potrei concedergli un breve incontro”.

“Come lei ordina, principessa”.

“Aspetta un momento”, intimò la principessa “dimmi guardia, com'è questo principe?”

“Principessa, a onore del vero, questo principe di Moncrotone è veramente molto bello; parrebbe, ma devo supporre possa essere solo un’impressione, che sia un po’ scemotto: non fa altro che ripetere ‘molto bene’”.

La principessa pensò: “Un principe molto bello che dice sempre ‘molto bene’? Molto interessante”; poi disse: “Ho capito. D'accordo, allora che entri, lo riceverò. Ma non subito, sia chiaro. Verso sera”.

La guardia, per prudenza, domandò:

“Quindi, mia principessa, lo riceverete tra tre mesi o verso sera?”

“Ho detto verso sera”.

Fu così che il Principe Gael di Moncrotone entrò con il proprio cavallo Dino all’interno della celeberrima fortezza di Cornello.

Una volta dentro, il principe si diresse verso le scuderie per dare acqua e cibo al cavallo, piuttosto stanchino.

C’era una bella vita.

Gli uomini erano indaffaratissimi a occuparsi dei loro mestieri.

Un ragazzo di 12 o 13 anni si avvicinò al principe e gli chiese:

“Principe, avete per caso dei fratelli?”

“Tu che pensi, bel fanciullo?” fece il principe.

“Penso che ne abbiate almeno sette”.

“Molto bene. Infatti, ne ho almeno sette”.

Un maniscalco, invece, chiese al principe quanti cavalli possedesse. 

Il principe a sua volta gli domandò:

“Secondo te?”

“Secondo me più di mille”.

“Infatti, ne ho più mille. Molto bene”.

Verso sera una guardia si presentò al principe e lo invitò a seguirlo.

Il principe Gael si ritrovò dentro la fortezza nel bel mezzo di una sala sterminata e profumata; non una sedia, però, non un tavolo, non altro, una immensa sala vuota.

“Con licenza”, disse la guardia e se ne andò.

Dopo poco entrò un servitore con una poltroncina tra le braccia, poltroncina che venne adagiata nel centro della sala.

Ed ecco che la principessa apparve, si avvicinò al principe e gli tese il dorso della mano:

“Benvenuto principe di Moncrotone”.

“Vi ringrazio principessa Pamelinda per avermi ricevuto”.

I due si guardarono.

Il principe pensò: «E’ vero, è bellissima».

La principessa pensò: «E’ vero, è bellissimo», e disse: “Cosa posso fare per voi, principe?”

“Niente”, fu la risposta.

“Niente? E per quale ragione avete voluto incontrarmi?”

“Per baciarvi la mano”.

“Oh! Principe, a questo punto, ditemi qualcosa di voi. Raccontatemi”, e la principessa si sedette sulla poltroncina reale, le mani in grembo, la testa leggermente inclinata, gli occhi nerissimi e attenti a scrutare il giovane e bellissimo principe.

“Mi chiamo Gael, sono il principe di Moncrotone. Il mio cavallo, un cavallo perfettamente marrone, si chiama Dino. Ho almeno sette fratelli e posseggo più di mille cavalli. E questo è tutto”.

“Principe, voi componete versi, per caso? Siete un poeta?”

Il principe, lo si può immaginare, non sapeva se fosse o meno un poeta, però, poiché non aveva idea di come si scrivesse una poesia (mentre, per esempio, sapeva cavalcare con grande abilità), poteva essere che proprio poeta non lo fosse. Tuttavia, disse:

“Principessa, la vostra sensibilità cosa vi suggerisce, sono o non sono un poeta?”

“Lo siete”, sentenziò la principessa.

“Molto bene”, disse il principe, prendendone atto.

“Principe, vi chiedo di comporre ora, per me, una poesia. Volete?”

“È un onore, principessa, ma, prima, se mi permettete, vorrei porvi una domanda: come fareste voi a comporre una poesia, dovendola comporre?”

“Prenderei le parole e le mescolerei come per fare una torta”.

“Quali parole?”

“Tutte. Quelle che conosco, quelle che sento pronunciare dagli altri, nelle frasi, nei proverbi, nelle richieste, negli editti e cercherei anche di fare delle rime tipo patata-frittata; però ora, forza, principe, inventate e recitate una poesia per me. Come si intitola?”

“Che cosa?”, fece il principe.

“Ma la poesia!”

“La poesia, giusto. La poesia per voi si intitola...si intitola... ‘La principessa più bella di tutti i tempi’”.

Pamelinda tremò per l’emozione.

Il principe si schiarì la voce e cominciò a recitare:

 

Poesia: la principessa più bella di tutti i tempi.

 

Principessa qui, principessa là…ehm

La grande fortezza si trova qua...

Voi siete bella e si sa.

Guarda, guarda, eccoci qua.

Ehm...

Trotta trotta il cavallino

Mangia mangia lo zucchino.

E questa è la poesia.

 

Pamelinda, in realtà, poco ne capiva di un’arte così complessa e, spesso, anche pericolosa, quale era la poesia e diede per certo che la lirica improvvisata dal principe Gael fosse stupenda e infatti disse in piena estasi:

“È stupenda”.

“Grazie principessa”.

È stupenda”.

“Grazie principessa”.

“È stupenda”.

“Molto bene”.

Dopo di che la principessa disse solennemente:

“Principe Gael di Moncrotone, se i vostri genitori vorranno benedirci, come senz’altro faranno, voi sarete mio promesso sposo e io vi sposerò”, quindi attese la scontata, entusiastica e caratteristica risposta di Gael, il suo famoso, garantito ‘molto bene’.

Il principe Gael, però, guardò con aria stupita la principessa, si accarezzò guance e labbra con la sua mano destra e disse:

“Non credo, principessa”.

Un silenzio interminabile e immobile prese il dominio del mondo.

La principessa era una statua.

“Principessa Pamelinda”, disse a un certo punto il principe con voce calda, “voi siete, senza ombra di dubbio, la più bella principessa di tutti i tempi. I vostri occhi, neri come le profondità della terra, brillano come stelle del cielo. I vostri capelli sono profumo, sono seta, sono respiro. Principessa, voi siete incantevole, ma io non vi posso sposare. Non so perché, ma sento che non posso essere vostro consorte”.

Il volto della principessa divenne color fango, poi virò verso un giallo ocra, subito dopo comparve il colore blu (per lo meno tale apparve al principe), il blu restò sul volto della principessa per diverso tempo poi arrivò il colore bianco, infine esplose un rosso scarlatto e la principessa, con quell’ultimo colore, si alzò in piedi, respirò come una belva e cominciò a urlare come un cervo ferito puntando l’indice verso il principe:

“Voi, brutto somaro di un principe da quattro soldi! Vile omuncolo! Voi, voi non potete essere mio consorte? Non sapete perché? Ebbene allora non sarete consorte di nessuno.

Guardie! Consiglieri! Apprendisti! Prendete subito questo traditore, uccidetelo qui, davanti a me, adesso. Subito”.

Il principe Gael non perse un secondo di tempo e, a balzi da stambecco, si precipitò verso l’esterno del palazzo mentre la principessa continuava a gridare i suoi feroci ordini.

I tentativi delle guardie di afferrarlo o colpirlo andavano a vuoto, il principe pareva una trottola: li evitò tutti e, a capofitto, arrivò come un giaguaro nei cortili della fortezza, si precipitò verso le scuderie, saltò in groppa a Dino e gridò: “Vai Dino!”

E Dino non se lo fece ripetere una seconda volta.

La dea della fortuna, la più imprevedibile di tutte le dee, era lì ad attenderli: il grande portone della fortezza era completamente spalancato perché una carovana di carri pieni di merci stava entrando nei cortili in quel momento.

Dino e il principe lasciarono la fortezza in un baleno.

Le guardie, però, a loro volta, salirono sui cavalli e si lanciarono all’inseguimento del principe: erano più di cinquanta, tutte armate, urlanti.

Nelle strade di Cornello la gente guardava stupita un cavaliere galoppare alla velocità del vento inseguito da un esercito di guardie urlanti. Chissà cosa stava succedendo?

Le urla degli inseguitori servirono a poco: appena fuori Cornello, le guardie non erano neppure più nella possibilità di vedere il principe, tale era diventata la distanza tra loro e lui.

Il principe era irraggiungibile e, in effetti, le guardie della principessa Pamelinda non lo raggiunsero mai.

Quando si sentì tranquillo, dopo molta e molta strada percorsa al galoppo, il principe piegò con il suo Dino verso un boschetto e lì si riposò.

A cosa pensava ora il principe, in quel boschetto, sdraiato sull’erba fresca e umida della notte?

Alla principessa Pamelinda? No, non pensava a lei.

Alla sua spericolata fuga dalla fortezza di Cornello? No, non pensava alla fuga.

Alla possibilità che le guardie, continuando a inseguirlo, alla fine avrebbero potuto raggiungerlo? No, neppure questa preoccupazione passava per la testa del principe.

Il principe pensava ad altro: 

“Ma che stupido che sono stato”, si diceva: “della ragazza che ha dato un nome a me e al mio cavallo non so niente! Chi era? E per quale motivo il suo sorriso e la sua voce sono sempre nella mia testa? La sua voce di musica era bella come un’alba d’inverno. Perché non le ho chiesto nulla? Perché ho abbandonato la mia storia (che per altro mi aveva regalato lei) nelle sue mani creatrici senza fiatare?”

Il mattino seguente il principe si diresse nel luogo dove aveva incontrato la ragazza dalla voce di musica, scese da cavallo e con le mani dietro alla schiena cominciò a guardarsi intorno: non c’era anima viva.

“Dino, scusa, ma da qui io non mi muovo più, penserò solo all’acqua e al cibo per te”.

Era arrabbiato con sé stesso.

Rimase ad attendere la ragazza per 11 giorni e 11 notti, dormendo proprio nel punto dove era caduto. I passanti lo guardavano con curiosità e timore: si chiedevano chi mai fosse quel giovane e cosa stesse combinando.

L’undicesima notte non era ancora terminata, il primo chiarore dell’alba forse stava colorando le colline ad est o forse non ancora. Il principe, malconcio e pallido di stanchezza, affamato, dormiva un sonno leggero, senza sogni.

Fu allora che venne svegliato da una voce sottile:

“Principe Gael…”.

 

Il principe aprì gli occhi e, in quello stesso istante il suo cuore cominciò a battere come un tamburo. Vicino a lui c’era la voce di musica. 

“Principe Gael…”, ripeté la fanciulla sorridendo come sempre.

Gael si alzò in piedi, si scrollò la terra dai vestiti, sorrise a sua volta e disse:

“Vi stavo aspettando”.

“Perché mi stavate aspettando?”

“Perché non so come vi chiamate”.

“Mi chiamo Anita”, disse lei.

“Anita, sapete che vi ho pensata molto?”

“Principe, anch’io vi ho pensato molto”.

“E voi sapete il perché mi avete pensato molto?”

“Sì. Ma so anche che sono una contadina e che voi siete un principe”.

“E allora?”

“I principi e le contadine vivono in mondi differenti”.

“Anita, disse Gael, io sono quello che voglio e pertanto vi informo che non sono un principe”.

“Però siete vestito come un principe”.

“Questo non ha alcuna importanza”.

“Principe, i vostri ricordi vi hanno abbandonato. In verità, non potete sapere chi siete”.

“Quindi sono quello voglio”.

“E chi siete, allora?”

“Sono un amico dei cavalli, mi piacciono i cavalli e so prendermi cura di loro. E il mondo dei cavalli, Anita, fa parte di tutti i mondi del mondo”.

“Principe…”

“No. Non sono un principe”.

“Gael, cosa volete da me?”

“Niente”.

“E perché mi stavate aspettando? Solo per chiedermi il nome?”

“Non solo. Volevo anche vedervi”.

“E ora che mi avete vista?”

“Ora potremmo fare due passi insieme, Anita, se volete”.

“Ma sto andando a Barengo”.

“Solo due”.

“Dove andiamo?”

“A Barengo”, disse Gael e le prese una mano.

 

Per caso, avete un’idea di come finisce questa storia?

Sì?

Molto bene.

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